“Ju calenne”, l’albero del maggio di Tornimparte (Aq)

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foto Giacomo Carnicelli

Il presidente della Pro Loco di Tornimparte (L’Aquila), Domenico Fusari, ci ha raccontato la manifestazione auspicando uno scambio culturale con Accettura, località già nota ai taglialegna tornimpartesi perché si recavano nei nostri boschi per fare il carbone e le traverse delle ferrovie.

Il rito pagano, di origine longobarda, si rinnova ogni anno nella notte tra il 30 aprile ed il primo maggio – programma 2016 – e consiste nel tagliare nel bosco, in modo furtivo, un albero non da frutto ( generalmente un pioppo), trasportarlo a spalla ed issarlo davanti al sagrato della chiesa madre di S. Panfilo.

ju calenne

Descrizione

A Tornimparte, come accade da tempo immemorabile, tutti gli anni si rinnova nella notte tra il trenta Aprile ed il primo Maggio il rito “dell’Albero del Maggio” (in dialetto “ Ju calenne”).

In questa notte magica in ognuna delle parrocchie di Tornimparte, un gruppo di uomini vigorosi (il rito attivo è proibito alle donne) si reca in un  bosco nelle vicinanze del paese, taglia un albero maestoso, dritto ed alto e lo trasporta davanti al sagrato delle chiesa del proprio Santo Patrono. L’albero, come vogliono antiche tradizioni, deve essere innalzato e fissato prima dell’alba davanti la chiesa, dove  resterà fino alla fine del mese di Maggio. Trascorso questo periodo  verrà sceso per poi essere venduto ad un’asta pubblica, il cui ricavato in passato era destinato alla festa del Santo.

La tradizione Tornimpartese è quasi certamente di origine Longobarda, tesi confermata dai numerosi toponimi di origine germanica che troviamo nel nostro paese e si innesta su antichi riti greci e romani legati alle feste di primavera in omaggio alla fecondità della terra. La storia Longobarda è infatti molto legata alla cultura del bosco; lo stesso Jacob Grimm, linguista e mitologo  tedesco (1785-1863), studiando molteplici vocaboli di questa cultura, giunse alla conclusione che per gli antichi Germani probabilmente le foreste più impervie costituivano i loro primi santuari pagani. Nel territorio germanico erano molto diffusi i boschetti sacri, rispettati e venerati, nei quali dimoravano le antiche divinità protettrici delle piante; il culto degli alberi era tanto sentito da punire in modo feroce chi non rispettasse le piante o chi ne rovinasse la corteccia, secondo le leggi del tempo. D’altronde ancora al tempo della caduta dell’impero Romano d’Occidente, tutta l’Europa, Italia compresa,  erano ricoperte da foreste.

Tuttora il paesaggio di Tornimparte è un oceano di verde intenso,  predominato del  faggio che dimora fino a 1700 metri di quota, mentre  più in basso, seguendo le varie sfumature di questo colore, troviamo l’acero, il carpine, il cerro, il tasso, il nocciolo, l’ornello, la quercia, fino ai filari di salici e pioppi, che disegnano tragitti geometrici lungo le valli dei nostri ruscelli.

Fino agli anni ‘50 la comunità Tornimpartese è stata profondamente legata all’uso dei boschi per la sua  sopravvivenza. Nelle nostre faggete, come  in tutto l’Appennino, veniva attuato il taglio ceduo, conosciuto fin dal tempo dei Romani, che prevedeva una rotazione d’intervento di 25-30 anni, secondo una tecnica che consisteva nel taglio quasi raso del bosco, lasciando integre soltanto “le matricine” (piante che assicurano il seme) ed esponendo così tutto il bosco alla luce rigeneratrice. In questo modo le ceppaie del bosco si rigeneravano, ringiovanivano le radici e, dopo circa 30 anni, i carbonai avevano di nuovo a disposizione legna da ardere o da carbonizzare, mentre gli allevatori avevano fronde abbondanti per l’alimentazione degli animali. Usavano anche dei caratteristici sistemi di taglio ceduo, detti “la scamolla” e “la speegata”, per ricavare fascine con fronda verde da far essiccare al sole per il sostentamento degli ovini e soprattutto delle capre; con le frasche delle fascine, brucate dagli ovini, invece, le donne scaldavano i forni per cuocere il pane.

Tutto il sistema economico e sociale dipendeva dalla vita dei boschi, dei quali le popolazioni conoscevano le leggi non scritte, tramandate dall’esperienza, che assicuravano un uso delle risorse secondo le necessità stagionali e con un approccio di rispetto e di salvaguardia del patrimonio naturale. Questa comunità che trovava alimento materiale e spirituale nel bosco e nella sua mitologia,  ha conservato questa tradizione, essa stessa nata dal legame dell’uomo con la natura, giunta fino a noi pressoché indenne, nonostante la chiesa cattolica l’abbia duramente osteggiata contrapponendo alla festa pagana, il mese Mariano della Madonna. Fino a qualche anno fa, in una piccola frazione del nostro comune (Case Tirante), le persone più devote  recitavano il rosario tutti i giorni del mese di Maggio all’imbrunire, in una chiesetta dedicata  appunto alla Madonna.

La festa del santo patrono di Villagrande (fraz. di tornimparte), “S.Panfilo”, cade ogni anno il 28 Aprile, all’inizio della primavera e proprio a ridosso del rito “dell’Albero del Maggio” ed essa stessa impregnata di significati pagani e religiosi ancora del tutto da indagare ed approfondire. In questo giorno la comunità agro-pastorale sceglieva i pastori per accudire le bestie al pascolo, cioè vaccari, cavallari e pecorai e si effettuava la benedizione delle semente sotto lo sguardo del Santo esposto sul sagrato della chiesa.

Avveniva, in quel giorno, un fatto importantissimo per capire la complessità della tradizione Tornimpartese “dell’Albero del Maggio”: sul cancello della chiesa, in modo che tutti recandosi a messa potessero vederlo, veniva esposto dai pastori un ramo di faggio fiorito. Attualmente le fronde del faggio fiorito vengono esposte sul cancello della chiesa da coloro che sono incaricati dal parroco di organizzare la festa di S. Panfilo ma in passato, il ramoscello fiorito era per la comunità il segno della fine dei rigori invernali: finite le scorte dei foraggi, del grano e dei legumi dell’anno passato, finalmente le mucche, abituate a spuntare i rami alti del faggio, potevano uscire dalle stalle e riprendere, appena cresceva l’erba, la via della montagna insieme alle greggi, inaugurando la stagione nuova.

Il faggio fiorito e “l’Albero del Maggio” sono probabilmente due aspetti della stessa tradizione.

In un convegno tenuto a Tornimparte nell’edizione “dell’Albero del Maggio” del 1990, Alfonso M. DI Nola, antropologo e docente di Storia delle Religioni all’università di Napoli, scomparso nel 1997, definiva il mese di Maggio una “strettoia” in cui la comunità contadina era esposta a tutti i rischi di una scarsa alimentazione e la sopravvivenza era messa in pericolo, essendo finite tutte le scorte dell’anno precedente e dipendendo la vita dal  risveglio della terra.

Gli stessi allevatori Tornimpartesi, legati ad un allevamento di tipo stanziale, che costringeva gli animali in stalla per tutto l’inverno, immaginavano il mese di Maggio come una salita scoscesa difficile da risalire: “sarà dura risalire le coste di Maggio” dicevano, nel loro linguaggio essenziale ed efficace. Temevano questo mese tanto da non chiamarlo per nome, ma da apostrofarlo come “ quiju appresso a Abbrile”  (il mese  dopo Aprile).

A quel momento difficile gli uomini reagivano attraverso una prova di forza collettiva, trasportando insieme, sulle spalle, quella  pianta appena germogliata, quasi condividendo un comune destino e che, una volta issata, rappresentava anche la sessualità maschile e un vigore ritrovato insieme al risveglio della natura. La fertilità si completa e si esprime nel  rapporto dell’uomo con la donna, così come la natura, per recuperare la propria fecondità, si “concede” ai raggi del sole.

In questo periodo i taglialegna/carbonai tornavano al paese, dopo aver svernato tra i monti Abruzzesi, della Toscana, del Lazio, della Basilicata per preparare la terra alle sementi primaverili e si ricongiungevano alle famiglie, ai figli piccoli, alle moglie e alle spose, ritrovando così, dopo le lunghe notti passate nelle capanne in mezzo ai boschi, il calore famigliare.

Il risveglio primaverile, che porta con sé l’auspicio di nuove messi e frutti autunnali, comportava  anche un risveglio sessuale. Una gravidanza, infatti, nei mesi di Aprile/Maggio, presupponeva una nascita nei mesi invernali di Gennaio/Febbraio, quando i tempi di lavoro erano fermi e le donne potevano dedicarsi all’allattamento e alle cure dei  nascituri, aiutate dalla disponibilità di tutta la famiglia ormai ricomposta. L’uomo, dopo mesi di astinenza, ritrovava il “pane”, termine con cui i pastori nel loro gergo,  chiamavano  l’amore.

Naturalmente, oggi, la festa “dell’Albero del Maggio” non è volta ad ingraziarsi le amicizie della dea Diana, signora e protettrice dei boschi, né a placare le ire degli spiriti della vegetazione ma, acquistando nel tempo nuovi significati e nuove forme, risponde al bisogno dell’uomo di conoscere il proprio passato e la propria storia. Tornimparte non teme il tempo modificatore.

Per comprendere la tradizione bisogna viverla dall’interno, sentirne le pulsioni e coglierne il significato non di semplice folklore rabberciato o rispolverato, ma di una manifestazione  che giunge a noi dalla notte dei tempi e che questa comunità ha sedimentato nelle proprie radici.

Chi partecipa a questa festa è consapevole di vivere un’esperienza unica ed irrepetibile che non si svolge mai uguale a se stessa, ravvivata dalla presenza dei giovani che, per una notte lontani dalle discoteche, hanno la possibilità di stare a contatto con gli “anziani”, per imparare “l’arte” di piantare “il Maggio” e riscoprire il calore del dialogo.

Nonostante la modernità abbia attenuato i caratteri della festa pagana ed indeboliti i segni di questo rituale magico/religioso incorporato nel contesto agro-pastorale, ogni anno si rinnova e si ripropone come una ricorrenza molto sentita dalla popolazione.

La fatidica notte del “Maggio”

Dopo la preparazione, il gruppo dei “maggiaioli”, come di consueto, si è avviato con torce, funi ed accette nel luogo stabilito, in silenzio per depistare il proprietario, che non deve sapere.

La scelta del pioppo da sacrificare viene fatta nel giorno di S. Panfilo dal capo dei “maggiaioli”, coadiuvato dalle persone di maggiore esperienza ed è sempre un momento solenne e delicato che avviene non senza incertezze e ripensamenti. Viene scelta una pianta alta e dritta, di circa 30-40 metri di altezza, dall’aspetto maestoso e regolare, della quale viene valutato il peso e la posizione nel  terreno.

Tutte le fasi, dal taglio al trasporto fino all’innalzamento, sono pericolose per eventuali incidenti: si tratta, infatti, di piante di decine di quintali di peso e non è facile coordinare 60-100 persone eccitate e stanche dalla fatica; si richiedono decisioni rapide per risolvere di volta in volta le difficoltà  che si presentano. Si entra nei sentieri di campagna, tra il profumo dell’erba fresca e sotto l’aria pulita e frizzante della notte, si effettuano le ultime valutazioni, non senza accese e appassionate discussioni,  su come affrontare il taglio. La posizione del taglio va angolata  in modo che, cadendo, “ il Maggio”, non resti imbrigliato tra le altre piante.

Dopo il segno della croce, auspicio che tutto vada nel migliore dei modi, si passa al taglio con l’accetta che passa di mano in mano, fino allo schianto finale. Al momento della caduta la pianta emette un “gemito” stridulo, quasi un grido di dolore, che si confonde con l’urlo delle persone che scaricano la tanta tensione accumulata. Tutti si avvicinano intorno, come ad ammirare una bella donna, per le prime valutazioni sulla grandezza e “l’appariscenza”.

Si libera il tronco da tutti i rami laterali, la gente si stringe attorno alla pianta, i vecchi si passano la voce e si incitano i giovani. Il primo contatto con le mani avviene quasi in silenzio: la pianta si alza fino al ginocchio e poi si rimette a terra, si prova e si riprova. Quando si è convinti di poterla dominare, un urlo collettivo accompagna lo sforzo di issarla sulle spalle e si riparte verso il paese.Grida si alternano ad improvvisi silenzi, che accompagnano l’albero verso la chiesa; i “maggiaioli” esperti danno il cambio ai giovani in difficoltà e li esortano a coordinarsi per non cedere al peso. L’ incitamento rauco dalla fatica e dal sudore del capo “maggiaiolo”, determina il ritmo del passo.

Arrivati alla chiesa, lo sguardo della statua del santo patrono, esposta sul sagrato per l’occasione, sembra osservare e controllare che tutte le delicate operazioni di innalzamento della pianta avvengano in modo sicuro. Comunque, in tanti anni, non abbiamo avuto nessuno incidente serio: ci piace pensare che S. Panfilo abbia inteso proteggerci, pur sapendo che i suoi parrocchiani svolgono una festa di origine pagana.

Con un sistema di corde di tiraggio che parte dalla torre campanaria “il Maggio” viene issato e stabilizzato nel terreno sotto una splendida notte stellata e il suono delle campane avvisa la popolazione  che tutto si è svolto bene e prima dell’alba.

Tutte le operazioni sono regolate da norme ben precise, che rientrano negli usi e nelle consuetudini della tradizione. Il proprietario ha il diritto, ad esempio, di rientrare in possesso della pianta solo se sorprende i “maggiaioli” all’interno del proprio fondo, o quando non si riesce ad alzarla  prima dell’alba. In passato, per stabilire l’ora dell’alba, si presentavano davanti ad esso delle persone da lui conosciute, che dovevano essere identificate a 100 passi di distanza. Se il riconoscimento avveniva significava che l’alba era sopraggiunta.

Non di rado il rito si è svolto sotto la pioggia degli acquazzoni primaverili o sotto il freddo, occasioni nelle quali rimanevano le persone più convinte e temerarie, e in cui il vino ed il sudore rafforzavano la determinazione a proseguire.

Al suono delle campane la popolazione presente si stringe intorno ad un grande falò, allestito al centro della piazza del paese, per gustare durante la notte gli spaghetti e la ventresca “aju zippu”, antico pasto dei carbonai. Il suono degli organetti, i canti, il vino e i balli  accompagnano un gruppo di giovani e vecchi fino all’alba.

Non si ripete più il tripudio collettivo che accompagnava la festa pagana, ma ognuno comunque è contaminato dall’atmosfera suggestiva di questa festa e torna a casa più sollevato, convinto di aver passato una notte senza eguali. Tornimparte è geloso protettore delle sue tradizioni, legate al mondo dei pastori e dei carbonai, e le conserva per farle conoscere.

Noi sappiamo che la notte del 30 di Aprile non abbiamo perso tempo, ma abbiamo espletato una operazione culturale che può servire a dare dignità alla vita quotidiana.

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